In questi ultimi anni è maturato un nuovo interesse verso la conoscenza e l’approfondimento della musica di tradizione salentina.
Sarà che il panorama della riproposta ha (forse) esaurito la spinta verso “l’innovazione”, la ricerca di “altro” da se stessa, sarà che le nuove “emozioni” ricercate nell’ambito di una sonorità globalizzata non ha prodotto nuovi e singolari stati d’animo capaci di stimolare l’immaginario sonoro salentino, sta di fatto che si guarda con rinnovato interesse alla musica di tradizione e naturalmente ai suoi esecutori-cantori. Oggi abbiamo un vasto e ampio panorama di biografie e discografie degli “alberi di canto e di cultura” che ci aiutano a orientarci nel vasto panorama della musica di tradizione salentina fatta di canti religiosi, di questua di canti di lavoro, d’amore, narrativi, stornelli e della musica della taranta. Fra i maggiori custodi della tradizione sonora un posto privilegiato spetta a Uccio Bandello, Uccio Aloisi, e Narduccio Vergaro e altri che in quel di Cutrofiano sono stati protagonisti di stagioni musicali ricchissime e importantissime. La loro memoria e il loro sapere è fortunatamente custodita in una vasta biografia e discografia: Bonasera a quista casa, (Aramirè); Uccio Bandello: la voce della tradizione (Kurumuny); Uccio Aloisi:la voce della terra (Kurumuny); I colori della terra (Aramirè).
Li ho conosciuti quasi quaranta anni fa. Voci possenti, intonate e investite dall’autorità e dalla comunità a rappresentare e cantare il panorama sonoro di Cutrofiano e dintorni. I tre hanno condiviso percorsi comuni di vita contadina, hanno attraversato insieme periodi storici fra i più dinamici del Novecento. Emigrazione, fatica atroce sviluppo economico tesi ad un radicale cambiamento non solo dell’economia ma anche di un sistema di valori legati a contesti che fra gli anni ’60-’70-’80 hanno cambiato radicalmente il contesto delle comunità d’appartenenza. Caratteri diversissimi: Bandello schivo e riservato, composto sia in pubblico che in privato, voce intonatissima tenorile capace di raggiungere vette sonore di pregevolissima fattura; Aloisi resistente a qualsiasi schema, eclettico, ironico, capace di attingere senza apparente difficoltà etica a tutti gli aspetti della cultura popolare anche quelli più licenziosi e salaci, sempre pronto a misurare la sua persona con riti e miti salentini , mai prono ad accettare la “fatalità” della condizione contadina. Padrone e facitore del proprio destino; Vergaro trattino di unione fra i due “Colonna d’oru” su cui poggiare la propria creatività sonora. Bella voce, dolce, intonata capace di interpretare alla perfezione la voce guida e portante di qualsiasi canto. Cantore docile e accomodante, sensibile agli umori dei suoi amici. Per decenni i tre hanno rappresentato la “formazione” ideale del canto orale di tradizione del Salento: prima seconda e terza voce. Con loro il canto diventa estetica del bello; essenza sonora e sintesi di sentimenti che tramite loro emozionano e coinvolgono chi li ha sentiti cantare o dialogare. Consapevoli che la loro esistenza era legata a fattori casuali e voleri dei loro padroni e sottocapi coltivano attraverso il canto la sola cosa che nessuno poteva impedirgli e togliere: il cantare come mezzo terapeutico del diritto a una umanità diversa più umana e dignitosa.
Quanto più era presente in loro la consapevolezza di morire giorno per giorno senza orizzonte del futuro tanto più il canto diventava esteticamente bello e perfetto risultato di una consapevolezza e padronanza delle tecniche e delle conoscenze della tradizione sonora di una intera comunità. Quando sono insieme diventano poeti e cantori raffinatissimi dell’amore, delle fatiche, dello sfruttamento, cantori ambulanti di una epopea religiosa che legava i destini del’uomo alle vicissitudini terrestri del figlio di Dio. Andavano di casello in casello a raccontare la vita di Cristo di quello che patì, facendosi tramite delle fatiche e delle virtù di un intero popolo. Indimenticabile resta una loro esibizione nella manifestazione “Passione e Resurrezione” del 1983 a Calimera vicino alla chiesa dell’Immacolata insieme a Roberto Angelelli, suonatore raffinatissimo di fisarmonica. Insieme regalano ai presenti una appassionata versione del “Santu Lazzaru”. Dalle loro voci traspare gioia, serenità ma anche denuncia delle condizioni in cui erano costretti uomini e donne in epoche non molto lontane e con le loro sonorità invadono i presenti rendendoli partecipi di questi sentimenti.
Leonardo (Narduccio) è l’ultimo dei tre che ci ha lasciati; ha raggiunto i suoi amici di “Questua”. A noi rimangono suggestioni, suoni, voci, racconti della quotidianità, che nel loro divenire musicale diventano immaginario sonoro collettivo capace di stimolare una appartenenza positiva e creatrice.
Luigi Chiriatti
Ricercatore di Storia Orale